Dopo il successo di Marine Rites, lo storico “concerto galleggiante” presentato a Roma nel lontano 1979 dal Maestro Alvin Curran, e riproposto in una nuova versione diurna al laghetto di Villa Borghese lo scorso 25 settembre, il Maestro Alvin Curran, domenica 27 novembre h 17, sarà nuovamente protagonista del Romaeuropa festival per portare in scena, nella cornice dell’Accademia di Francia a Villa Medici, il suo Endangered Species ossia The Alvin Curran Fakebook: un’autobiografia atipica in forma di composizione sonora. Tra sperimentazione e ironia, Curran ripercorrerà quasi 50 anni della sua musica costruendo una vera e propria antologia di ‘genuina musica impopolare’.
Autobiografia e fake, dunque, come doppio riferimento: da un lato l’ormai popolare social network, dall’altro un vero e proprio assemblaggio di pezzi staccati. Più di 200 lavori sistemati per frammenti, itinerari, composizioni complete, materiali sonori sparsi, ora offerti all’ascoltatore nella loro nudezza e intimità. Quasi un riflesso sonoro del DNA di questo straordinario artista.
Nato negli Stati Uniti ma ormai d’adozione romana, Alvin Curran è una figura di spicco nel panorama musicale contemporaneo. Allievo di Elliot Carter e cofondatore assieme a Frederic Rzewski, Allan Bryant e Richard Teitelbaum del gruppo romano Musica Elettronica Viva, Curran è stato uno dei principali animatori del panorama culturale e artistico romano e internazionale a partire dai primissimi anni ’70 fino a oggi grazie alla sua inesauribile curiosità ma anche a un percorso pieno d’incontri: dal gruppo d’improvvisazione Nuova Consonanza di Franco Evangelisti alla frequentazione con Bruno Maderna e Giacinto Scelsi, dal Folkstudio di Harold Bradley agli spettacoli avanguardistici del Beat’72.
Programma di Sala a cura di Federico Capitoni
Alvin Curran non sa ciò che accadrà durante la serata musicale che lo riguarda. Non può saperlo, perché tutta la sua vita musicale si è costruita sul momento, attimo per attimo, secondo la coscienza del presente. L’unica cosa di cui è certo è che questa pagina performativa esistenziale, un concerto autobiografico in tempo reale, lo rappresenterà nel suo modo peculiare di approcciare la musica; quello che il compositore conosce e può prevedere è la forma, non il contenuto. Come molti esponenti dell’avanguardia americana post-cageana, negli anni ’60 e ’70 Curran sperimentava la possibilità di tenere insieme la scrittura musicale convenzionale con l’improvvisazione, la creazione estemporanea: una traccia musicale c’è, il resto lo si realizza nel momento. Questa prassi richiedeva tempo: «Tutto il tempo che ci voleva -dice Curran-, senza dover essere schiavi delle convenzioni concertistiche o discografiche. Eravamo ispirati dalle pratiche orientali, non quelle occidentali».
Così, in quattro ore di concerto aperto, dove tutto può succedere e il concetto di puntualità si sgretola, il compositore cerca di tenere insieme realtà acustiche contraddittorie: quelle del pianoforte a coda e della tastiera elettronica, quelle del computer e delle conchiglie o dei corni d’antilope africana. La peculiarità della sua musica non è infatti armonica, melodica o ritmica, bensì timbrica. Curran ha passato la vita a creare il suo personalissimo soundscape, un paesaggio di suoni ambientali catturati in quasi sessanta anni di caccia musicale. Sono circa duemila le occorrenze acustiche, voci di un vocabolario sonoro, collezionate e ora campionate, pronte a sprigionarsi alla pressione di un tasto: l’acqua, gli uccelli, il vento, certo; ma anche le urla, i sussurri, i rombi del quotidiano agire umano e tecnologico. Si può star certi che il paesaggio sonoro creato da Curran è molto personale, frutto di una sua personalissima ricezione uditiva, esercitata peraltro proprio a Roma, la città in cui vive dalla metà degli anni ’60. Nelle sue parole si comprende come raccogliere la musica spontanea del mondo non abbia soltanto un valore scientifico ed etnografico se la si sa cogliere come manifestazione artistica in sé: «Andavo in giro con un registratore a nastro documentando tutto ciò che passava, in particolare i suoni della strada, le voci dei mercati dove i venditori componevano una sinfonia meravigliosa di richiami; dalle finestre aperte si sentiva la gente cantare; poi le rondini, le cicale… Era tutta una novità sonora. Per me, da straniero principiante, era esotico e affascinante. La vita italiana è una vita con la finestra aperta, l’italiano vive con una notevole energia acustica. E trovo che sia musica quotidiana in sé, non suoni senza senso ai quali dover dare un significato».
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